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25/10/2010

Non dire a mia madre che sono in Iraq

Incontro col documentarista Diego Buñuel, il 30 ottobre a Torino

Sabato 30 ottobre, alle 21, al Museo regionale di Scienze naturali di Torino, in via Giolitti 36, sarà il pluripremiato documentarista televisivo Diego Buñuel, ex soldato Nato in Serbia ed ex corrispondente di guerra nelle zone più pericolose del pianeta, nipote del grande regista surrealista Luis Buñuel, a concludere la IV edizione della Rassegna multidisciplinare "Per sentieri e remiganti", intitolata quest’anno Universi paralleli e dedicata dall’Associazione culturale Gruppo del Cerchio all’amico-attore Sotigui Kouyaté, scomparso qualche mese fa.
Realizzato in collaborazione con Nat Geo Adventure (Canale 404 di Sky) e intitolato "Per un nuovo giornalismo: reportage iper-realisti contro i pregiudizi", l’incontro con Diego Buñuel verterà in particolare sulla sua idea di giornalismo che, sforzandosi di lasciarsi alle spalle luoghi comuni e stereotipi, intende contrapporsi a un modo di costruire le notizie che tende a esasperare gli aspetti negativi delle realtà internazionali più dure e difficili, riducendole di fatto a meri teatri di guerre, soprusi, povertà e arretratezza culturale, per raccontare invece, grazie a occhi diversi, gli universi paralleli in positivo presenti in quegli stessi luoghi o, quanto meno, i segni di quanto cerca di resistere attivamente al negativo della devastazione.
Nella seconda parte della serata verrà proiettato, per la prima volta in una sala italiana, il documentario "Non dire a mia madre che sono in Iraq", di e con Diego Buñuel, della serie "Non dire a mia madre che...", di cui lo stesso Buñuel è autore, conduttore e produttore, in onda in Italia con la terza edizione sul Canale 404 di Sky dall’11 ottobre.
Ingresso gratuito per i giornalisti (sennò, 7 euro).
Informazioni: info@gruppodelcerchio.it - tel. 335.1952.006 - fax. 011.8609480 - www.gruppodelcerchio.it - facebook: gruppo del cerchio torino

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Diego Buñuel: "Io, nipote d'arte e Patch Adams del giornalismo"
(Articolo di Alessandra Comazzi pubblicato su La Stampa del 14/4/2009) 

WASHINGTON - Diego Buñuel ha prima di tutto un gran bel cognome, il «fascino discreto della borghesia» spalmato sulla camicia. Poi ha un bel fisico e una bella faccia. Che non usa per il cinema: non ha nemmeno tentato di ripercorrerle, le orme dei padri. Fa reportage. In zone di guerra. O dove la guerra è appena finita. Mantenendo il senso dell’umorismo. Un po’ come i dottori di Patch Adams, che cercano di portare il buonumore nelle lande sconfinate della sofferenza. Lui cerca di raccontare storie che si sviluppano in luoghi di tragedia, con uno sguardo non tragico, bensì ironico, lieve. Uno sguardo divergente.

«Provo a parlare di grandi problemi in modo semplice. Quando ero in Pakistan - ricorda - non ci potevano credere che io non cercassi né talebani né terroristi. Ma volessi occuparmi di vicende inaspettate». Diego Buñuel interpreta se stesso come un menestrello: «Racconto storie alla vecchia maniera, però in modo da interessare il pubblico dei più giovani, quello che non si schioda da Internet. Sono storie da macchinetta del caffè: come se lo spettatore fosse lì davanti, con il suo bicchiere caldo in mano, e mi chiedesse: ma davvero hai visto quelle cose?». Un Camera Café dei reportage. «O anche un modo vecchio, che però sta tornando nuovo, di interpretare il giornalismo: ovvero, muovere il culo».

Le cose che Buñuel ha visto formano una serie in onda da stasera su Nat Geo Adventure. Il titolo è Non dire a mia madre che.... Titolo buffo. «Ma sì, è nello spirito». Si comincia proprio con il Pakistan. E dunque, ecco una madrassa vista dall’interno, dall’aria tecnologica e molto poco fanatica. Ecco un negozio di parrucchiera in cui lavorano le ragazze sfigurate dall’acido: glielo tirano addosso i mariti per punirle, anche delle aspirazioni. Il corso per imparare a tagliare capelli e a usare tinture lo hanno fatto in Italia. C’è la popolarissima conduttrice trans (in Pakistan, chi l’avrebbe mai detto), che per di più sotto la maglia porta la croce. «Essere donne è sempre difficile. Più difficile. Dappertutto. E dappertutto il sesso è importante. Quindi non si può raccontare un posto senza parlare di sesso». Nonostante il Papa.

C’è la fabbrica di oggetti fetish: la camicetta in lattice, la cintura di castità, il frustino, la museruola da cane. Ma scusate, chiede Buñuel, non è un problema per la vostra religione? Certo che no, gli rispondono. Noi questi oggetti li produciamo soltanto, sono gli altri che li usano. Ci sono le feste sulla spiaggia, alcol e ragazze senza velo. A che classe appartengono? «Alla borghesia, naturalmente».

Ah, la borghesia di buñueliana memoria. C’è l’allenatrice della squadra femminile di nuoto che vorrebbe più piscine: hanno dei costumi che sono quasi tutine, le ragazze, molto aerodinamici. E, insomma, ne deriva un ritratto del Pakistan che va ben al di là dei luoghi comuni e della oggettivamente tragica, consueta rappresentazione.

Buñuel vive a Parigi, ma per poter realizzare reportage di questo tipo è dovuto andare negli Stati Uniti. «Ci ho provato per tre anni, a farli per la televisione francese, ma non ci sono riuscito. Troppi cliché, troppe limitazioni. Non puoi andare in Pakistan, o in Congo, o a Gaza, o nella Corea del Sud o a Beirut per rappresentare soltanto la tragedia. Io non ci credo. La mia scommessa è il senso dell’umorismo, che è fondamentale anche per i rapporti sociali». L’avrà mica ereditato dal nonno? «Lui ce l’aveva nero, l’humour. Non voglio giudicare quello che vedo; il mio punto di vista è non averlo: io non ti dico come la devi pensare. Ti faccio vedere, poi valuta tu».

http://www.lastampa.it/redazione/cmssezioni/spettacoli/200904articoli/42783girata.asp


 

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