L’informazione paga. I giovani salgono sui tetti per avere cultura, il mondo dell’arte scende in piazza per farla, giornalisti escono da redazioni importanti per fondare un quotidiano sui “fatti” e s’impongono nelle edicole, trasmissioni di inchiesta come Report ottengono consensi popolari… Sono segnali positivi? Si può essere ottimisti se si potesse fare il mestiere per cui il parlamento volle la legge istitutiva dell’ordine professionale dei giornalisti?
Ho sempre pensato che la Federazione Nazionale Stampa Italiana fosse qualcosa di più di un sindacato, e ho sperato in ogni congresso cui ho partecipato di vedere prevalere l’attenzione alla qualità dell’informazione sulle altre, pur fondamentali, questioni lavorative. Purtroppo, a leggere - in redazione, lontano dall’assemblea nazionale - i titoli delle sfide che il segretario Franco Siddi lancia al contestuale appuntamento di Bergamo rivedo la scaletta di un buon compitino, valido per il sindacato di qualsiasi categoria: ampliamento della base produttiva e del welfare. Solo al terzo punto viene indicato il tema “etica”, invece… dovrebbe essere il primo e molto ben sviluppato. Speriamo.
Credo che in Italia il nostro settore sia stato la base di partenza per il percorso che ha portato il Paese nel tunnel in cui si trova. Non a caso il piano di rinascita della P2 prevedeva di occuparlo, e, non a caso, con grande dispendio di risorse si è attivato «la tessera 1816» di quella lobby occulta, Silvio Berlusconi. Con la congiunzione politica, economia e informazione in uno stesso gruppo si è chiuso un triangolo che ha indebolito l’equilibrio democratico tra poteri.
Da tempo la situazione dei media si è cristallizzata: gran parte della pubblicità è nel mondo tv, con la conseguenza di vedere distribuite le risorse in finalità diverse da quelle utili a informare e quindi rendere più libero, preparato, responsabile, il cittadino. Con Grandi Fratelli e Isole dei famosi può crescere l’Italia?
Bisogna sbrogliare la matassa. Ripartire dai cittadini perché i politici siano rappresentanti di un Paese che vuole cultura, informazione e sappia produrle utilizzando risorse pubbliche e private a scapito di vacuità ed effimero. Dobbiamo batterci per avere gruppi editoriali slegati a interessi maggiori. Vogliamo essere preparati e rigorosi nella nostra funzione.
Poi arriverà il resto… con la multimedialità, con contratti adeguati ai tempi, etc.
Di fronte a una crisi che comporta l’uscita di 700 colleghi in un anno si può pensare di invertire la rotta se non si riparte dalle risorse? se non si investe sulla qualità a scapito del consumismo? e se non dimostriamo alla gente, ai nostri lettori, ai nostri telespettatori che noi siamo loro?
Luciano Borghesan