Vecchi articoli , vecchi resoconti di processi in Corte d’assise, a Torino. Questo libro li ripropone a mezzo secolo di distanza, così come uscirono allora, giorno per giorno sulle pagine regionali, talvolta nazionali, de L’Unità. E senza toccare una virgola. Perché sarebbe impossibile , oggi, farlo, facendoli diventare quello che non erano e, anche a distanza di decenni, non sono.
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Editore: KM Studio - Dimensioni: 156 pagine
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Cronache d’altri tempi
“L’uomo tagliato a pezzi” di Antonio De Vito
“Mi limitai a firmare le confessioni “aggiustate” dagli inquirenti, per la promessa della libertà, della taglia di un milione e di un posto alla Fiat”. A parlare è Mariano Della Maggiora, ventinovenne, accusato assieme ad altri due complici, dell’assassinio di Maria Barbiroglio, la gioielliera di via Berthollet, freddata con un colpo di pistola durante una rapina il 29 marzo del 1962, a Torino. Sono passati cinquant’anni dal processo che fu celebrato allora in Corte d’Assise. I tre imputati alla fine saranno assolti per insufficienza di prove. Frutto, secondo il cronista, di un’indagine inconcludente piena di suggestioni e di superficialità.
Quella promessa fatta al giovane Della Maggiora di “un posto alla Fiat” per indurlo a parlare, ad autoaccusarsi è lì a dimostrarlo, a darci la misura di una cronaca d’altri tempi, quando “un posto alla Fiat” poteva ben valere una confessione. Il cronista è Antonio De Vito, allora alla redazione torinese dell’Unità, che oggi ha raccolto vecchi articoli e vecchi resoconti di processi in Corte d’Assise, “senza toccare una virgola”. E’ la cronaca di un mondo scomparso, quello dei “pezzi” mandati in tipografia con un fattorino e affidato alle capaci mani di una categoria anch’essa scomparsa, i tipografi. Nell’epoca delle TV e dei siti internet che ti rimandano le cronache in tempo reale, che ti ricreano in video le vicende più clamorose, rileggere quelle pagine a chi, come Antonio De Vito, ha vissuto quell’epoca, procura un senso di rimpianto e di nostalgia. Chi non ricorda di avere raccontato, sulla base dei verbali delle Questure, del “milite”, allora così erano chiamati i carabinieri, che inseguendo il ladro era per caso inciampato e dalla sua arma era partito un colpo che “accidentalmente” aveva ferito il fuggitivo? Ci credevamo? No, certo, ma allora nessuno pensava di mettere in dubbio certi documenti “ufficiali”.
Seguite le cronache di De Vito. C’è la storia del processo al vigile urbano che “per sbaglio” uccise con un colpo di pistola il ladro dell’auto dell’allora sindaco, l’ingegner Giancarlo Anselmetti. Una “lussuosa” Lancia Flaminia. Il processo è dell’aprile del ’63. Anche qui la vittima, Pasquale Torres, fugge per sottrarsi all’arresto. Il vigile, Millo Cosseta, spara in direzione del giovane due colpi. Uno lo ferisce a morte. Omicidio preterintenzionale, ovviamente, ma il fatto che il vigile si sia fermato per sparare a praccio teso contro il fuggitivo lascia qualche dubbio. Un colpo “fortunato” o la capacità del rappresentante della legge di colpire un bersaglio mobile malgrado la scarsa dimestichezza con l’arma di servizio? Non si dice, ma certo, i vigili torinesi erano, come conferma lo stesso Cosseta, “molto eccitati” nella caccia ai ladruncoli che nella città della Fiat si erano permessi di rubare l’auto “privata” del sindaco. Anche se solo per fare un giro. “Spettacolare precisione” quella del vigile con la sua 7,65. Mera fatalità, dunque? I giudici lo condanneranno a due mesi e venti giorni, considerando fortuito il colpo di pistola che ha freddato Pasquale Torres, ventisei anni.
Seguite la cronaca del processo che dà il titolo al libro: “L’uomo tagliato a pezzi”. E’ una storia d’immigrati meridionali nella città del boom economico di quegli anni. E’ la storia di un carcerato per reati minori che esce dal carcere e sospetta che la giovane e bella moglie l’abbia tradito con il cugino della donna. Sono tutti originari di Caltabellotta, in provincia di Agrigento. Il “capo del clan” è considerata Francesca Trapani, quarantatré anni, che veste ancora come si usa al paese d’origine. Con i tre fratelli minorenni di Lucia Montalbano è accusata “solo” di vilipendio di cadavere. Perché Ignazio Sedita, questo il nome dell’ex detenuto, è stato fatto a pezzi, anzi “depezzato”, messo in due valigie e gettato in una roggia. Tutti d’accordo sui fatti, ma chi ha realmente ucciso Ignazio? Si sospetta la moglie, probabile fedifraga. Il presunto amante, Giuseppe La Bella, ammette solo di aver dato al Sedita qualche coltellata, ma dopo che era morto per una coltellata alla gola. E poi di averlo fatto a pezzi “con la roncola e il rasoio”. La sentenza è che il cugino è il colpevole ed è condannato a ventitré anni di carcere. La bella moglie del Sedita se la cava con sei anni per “vilipendio di cadavere” (in Cassazione sarà poi assolta per insufficienza di prove) assolti i fratelli della giovane. La madre è condannata a cinque anni, poi ridotti a tre, ma “a piede libero”. Cronache di un’epoca passata, quando ancora i processi non andavano in TV.
N. P.
http://www.ungp.it/Pagine/C_pag_libri_vediarc.asp?ID=21