“Daniele è libero, finalmente”. Inizia così la nota del presidente di Information Safety and Freedom, Stefano Marcelli, sulla liberazione dell’inviato di Repubblica. Prosegue la nota: “E bisogna leggere quel suo ennesimo bel pezzo da cronista sulla prigionia, per capire quanto sono stati duri questi quindici giorni. Il padre, la madre, la moglie e i figli, la paura e il rimorso per tanta dolorosa apprensione provocata agli affetti più cari. Quell’articolo è un monumento di umanità e di dignità professionale. Leggere Daniele e poi leggere i commenti di chi ora sembra che avrebbe preferito vederlo morto in nome di un rigore assoluto da legislazione di guerra, risulta un po’ ripugnante. Come certe considerazioni, reiterate a ogni rapimento, verso i “colleghi scapestrati“ o “incoscienti“. Ci vorrebbe un po’ di pudore, una moratoria del teatrino delle polemiche, almeno di fronte alla sacralità della vita messa in pericolo dalla violenza bruta dei tagliagole sanguinari. Ma dietro la felice conclusione della vicenda di Mastrogiacomo, resta una questione che è risultata evidente già in Iraq e ora si ripropone in Afghanistan. Scrive Daniele nel suo memorabile diario di prigionia: “Avevo deciso di andare a sud, a Kandahar e poi a Laskhar Gah. Perché qui domina il movimento Taliban e qui si può toccare con mano la realtà che ci viene raccontata da altri. E’ sempre stato il mio modo di lavorar . Vedere con i miei occhi, ascoltare, registrare e poi raccontare. L’ho fatto decine e decine di altre volte. In Iraq, in Somalia e Palestina“. Il modo di lavorare di Mastrogiacomo è l’unico modo di fare il giornalista davvero: i fatti, le fonti dirette. Ma il problema è proprio questo: si può ancora fare il giornalista oggi?“
Information Safety and Freedom
www.isfreedom.org