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08/06/2007

D'Alema attacca "La Stampa" al Tg1 delle 20

L'editoriale di risposta del direttore Giulio Anselmi

Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha accusato La Stampa, in un’intervista al Tg1, di averlo calunniato, attribuendogli un conto corrente chiamato Quercia. Ma dobbiamo correggerlo: noi abbiamo pubblicato un rapporto, fatto dalla più grande agenzia investigativa americana, la Kroll, attualmente in mano alla procura della Repubblica di Milano, che chiama in causa l’uomo politico, asserendo che su un suo conto sarebbe stato movimentato denaro. L’articolo chiariva: le accuse «non trovano altri riscontri, pezze d’appoggio, documenti per dimostrare un’affermazione tanto pesante quanto palesemente, almeno in quei rapporti confidenziali, non dimostrata».

Non si tratta di ipocrisia, ma di fatti. Potremmo far ricorso, in chiave difensiva, agli argomenti esposti dal ministro Di Pietro, nell’intervista che pubblichiamo all’interno, secondo cui, rendendo noti i documenti Kroll (che in gran parte non sono rintracciabili su Internet) abbiamo disinnescato un ricatto ai Ds. Ma noi non ci siamo mossi nell’interesse di qualcuno, né contro qualcuno: non per aiutare i Ds e neppure per complottare ai loro danni, magari per ordine di «poteri occulti». Abbiamo agito nella convinzione che quando un giornalista trova una notizia deve pubblicarla, beninteso contestualizzandola e fornendone le chiavi di lettura, lasciandone la valutazione ai lettori e, eventualmente, alla magistratura.

Lo abbiamo fatto anche in questo caso. Ma, a prescindere dalla vicenda che ci vede co-protagonisti col Vicepresidente-ministro e con tutto il rispetto e la comprensione umana per le reazioni di chi si ritenga ingiustamente aggredito, consentiteci di dire che il ricchissimo vocabolario - complotto, trame, spazzatura, torbidi, ombre, miasmi - col quale molti esponenti politici cercano di seppellire critiche, informazioni, valutazioni che siano caratterizzate da un elemento di scomodità è una scelta terminologica che esprime un sostanziale ricatto: chi critica i politici delegittima la democrazia; pertanto è antidemocratico; e poiché la democrazia è un bene, merita di essere squalificato ed emarginato senza nemmeno valutare il contenuto dei suoi argomenti.

Saremo sepolti dalla fatwa destinata agli antipolitici per quest’affermazione (anche se noi siamo ben certi di non meritare l’accusa): ma il rapporto tra informazione e potere rischia di diventare peggiore di quanto non fosse al culmine della crisi che portò al crollo della Prima Repubblica. Allora lo scenario era diviso tra forze declinanti, socialisti e democristiani, destinate a scomparire, gli emergenti leghisti e i comunisti piazzati sul confine, nel ruolo di guardiani del diritto di accesso alla Seconda Repubblica. Oggi gran parte della classe politica fa quadrato, unita dalla determinazione a difendersi in quanto casta, ostinatamente ostile di fronte alle richieste di cambiamento, blindata contro gli inviti alla trasparenza.

Siamo francamente convinti che un’informazione che pubblica le notizie sia più utile, per la tutela della democrazia, di un sistema mediatico col silenziatore, sovrastato - accade ormai da tempo in questo finale di Seconda Repubblica - da un turbinio di voci incontrollabili e da vicende, come il caso Visco, che si chiudono tra interrogativi irrisolti. La necessità di trasparenza induce a una riflessione aggiuntiva sulla vicenda delle 73 intercettazioni Antonveneta, che riguardano le telefonate di sei parlamentari che il gip milanese Clementina Forleo intende rendere pubbliche a partire da lunedì. Già molti deputati sono insorti dicendosi allarmati. I presidenti dei due rami del Parlamento, Marini e Bertinotti, sono intervenuti chiedendo al tribunale di Milano che le intercettazioni non siano rese pubbliche. Le loro intenzioni sono certo ottime e ne fa fede la personalità della seconda e della terza carica dello Stato. Ma il ruolo pubblico costringe a una limitazione della privacy, mentre certi velari possono apparire sospetti.

Già alla fine della Prima Repubblica norme nate con le migliori intenzioni si meritarono l’epiteto di «salvaladri» e acuirono la distanza tra politica e gente comune. Oggi, meno che mai c’è bisogno di alimentare l’antipolitica con segni e gesti che possono dilatare la sfiducia. Una telefonata inopportuna, se nascosta all’opinione pubblica, potrebbe finire col giganteggiare nello scontento. Arrecando molto più danno alle istituzioni di un articolo di giornale. Che noi, senz’alcuna iattanza, continuiamo a ritenere corretto. Ma del quale, da cittadini rispettosi delle leggi, siamo pronti a rispondere.

Giulio Anselmi
La Stampa, venerdì 8 giugno 2007
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